Politica:
arte e scienza di governare, di promuovere il bene pubblico. In democrazia,
quindi, un uomo che “fa politica” è un tale che assomma in se la “vocazione”,
per un esercizio che abbia uno scopo più nobile (il bene pubblico) di. quello
di un mestiere o di una professione, e la “competenza” necessaria per
promuovere e porre in essere gli atti più idonei al raggiungimento di tale
fino.
Se
ci guardiamo attorno, queste definizioni appaiono succo di beffarda ironia,
sinopie “qualunquistiche” tratteggiate a-posteriori, a memoria, per definire
l’immagine anonima, l’identikit del corrotto ed incompetente, in cui
riconoscere a proprio piacimento questo o quell’uomo politico.
Quando
un uomo politico sia universalmente riconosciuto e bollato, dentro e fuori del
suo partito, per un maneggione disonesto; quando un uomo politico, abile è fuor
di dubbio, sia riuscito ad intessere attorno a se tutto un intrico d’interessi
ed una rete di fedelissimi, dentro o fuori del suo partito, per recitare il
ruolo del regista e del primattore; quando un uomo politico, professando alte
idealità e giurando e spergiurando la sua vocazione per il bene comune, scucia
decine e centinaia di milioni per procacciarsi, per comprare, voti a se ed ai
suoi compari, milioni dei quali è ignota, o fin troppo nota, la provenienza;
quando t’imbatti in individui
del genere, di grazia, è azzardata, è qualunquistico denunciarli come “mafiosi”
e chiederne l’invio al confino della morale, visto che i mafiosi non si riesce
mai a sbatterli in galera?
Il
nostro paese, ce lo ripetiamo fino alla noia, è la culla del diritto. Ma il
ragazzino, strada facendo, s’è fatto furbo, ha affinato la sua tecnica, le ha
dato i contorni dell’arte, del bizantinismo, della capziosa dialettica
leguleia: ecco, quindi, che si pretende, a gran voce, la “prova”, lo straccetto
insanguinato della perduta illibatezza, mancando il quale, e soltanto allora,
puoi proclamare che la sposina è una puttana. Ma, puoi esserne certo, i casi
sono due: chi ti chiede la “prova” o è un povero ingenuo, o se l’è spassata in
lungo e in largo con la sposina, beninteso senza arrivare all’irreparabile.
Quindi,
per favore, se le cose stanno così,l asciamo stare gli ideali e trattiamo di.
affari.
A
proposito di affari, mi sovviene una barzelletta dei tempi ginnasiali, tuttora
il cavallo di battaglia di un caro amico che, sollecitato a gran voce
nelle nostre riunioni conviviali estive, nell’atmosfera disinibente procurata
da un buon bicchiere di vino di casa nostra, ce la torna a raccontare con fare
fra l’imbarazzato e l’impertinente. Eccola ,in sintesi, e per quanto possibile
sotto metafora: su consiglio della madre, evidentemente memore di analoga
esperienza condotta con successo, una sposina, non più illibata, cerca di
mascherare questa sua riprovevole e pericolosa condizione procurando, al
momento giusto della rituale prima notte, la chiusura di una tabacchiera
(opportunamente e preventivamente collocata), il cui scatto metallico,
un rumore sordo ma secco, dovrebbe riprodurre il rumoroso strappo che (secondo
la madre), in condizioni normali, accompagna la caduta dell’ultima barriera
difensiva offerta alla giovinetta da madre natura. Il tutto sottolineato, per dare
maggior forza alla sceneggiata, da un sospiroso ultimo saluto alla perduta
verginità. Ma ecco che, nell’esecuzione del piano, accade l’imprevisto: nella
concitazione del momento, le fauci della tabacchiera non si limitano a fare da
cassa di risonanza del rumore imeneo ma, con la rabbia di un mastino
inferocito, addentano le parti più vitali del malcapitato sposo, il quale,facendo
eco al grido truffaldino dell’infedele compagna, dà a sua volta
il suo doloroso e malinconico addio ai serbatoi della sua mascolinità.
Come
un po’ tutte le barzellette, anche questa nella sua innocente volgarità
contiene una parabola, ben adatta a quanto dicevamo prima.
La
morale della favola è presto detta: a rimetterci, comunque, son sempre i
coglioni.
(1981)
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