Il medico pietoso
Di te amore m'attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d'aranci,
e d'oleandri, sereno
cammina con rose il torrente
che quasi n'è tocca la foce.
Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se infanzia o amore,
ansia d'altri cieli mi volge,
e mi nascondo nelle perdute cose.
Salvatore Quasimodo
Modica
1901 - Napoli 1968
Premio
Nobel 1959
La lettura dei giornali,
o meglio di alcuni giornali, siciliani, soprattutto sotto l'imperversare (ed è,
purtroppo, cronaca pressoché quotidiana) della procella criminale, offre spunti
per alcune riflessioni.
Anzitutto colpisce la ritmica
degli accenti spazianti dallo sdegnoso al
patetico, dal tempestoso al curialesco, dal monitorio al riflessivo, dal
sociologico al profetico, forse per dare maggiore l'orza all'enfasi di
considerazioni che normalmente (partendo dallo stato di prostrazione di tutta
una società vittima di non meglio identificati prevaricatori, passando per dotti
excursus storico-sociologico-politici, non trascurando la comprensione della
corruzione e degli intrighi politico-affaristici determinati da uno stato di
necessità), convergono quasi sempre su due assiomi
di base:
1) i
giornali del Nord «ci bagnano il pane», non distinguendo il grano dal loglio
(è vero, ma per bagnare il pane ci vuole il vino; e, quanto alla sarchiatura,
deve forse provvedere il contadino della Bassa Padana?');
2) esiste
si un «caso Sicilia», ma determinato dallo Stato
che, non solo non ha messo un freno al malcostume e alla disonestà politica, ma e stato
complice nel coprire e nel proteggere.
Non abbiamo difficoltà a concordare sulle colpe dello Stato,
ma noi Siciliani che facciamo?
E qui torna acconcia la
citazione di quel Sindaco di Trapani che, qualche anno fa, in occasione di un
efferato crimine consumato sulle strade della sua città, se ne usciva coll'affermare
che a Trapani la mafia non era mai esistita e che, se c'era qualche mafioso in
zona, questi era di... Borgo Annunziata (un rione cittadino, a meno di due
chilometri dal palazzo municipale: n.d.r.).
Quindi malcostume e disonestà «politica»
(ma quali mafia, ppi carità!). Ma chi sono questi disonesti? sono di... Borgo
Annunziata? da chi é rappresentato lo Stato? chi sono gli altri complici dello
Staio nel coprire e nel proteggere? Nell'Isola del sole è difficile trovare dei
dissenzienti, in tutto o in parte, dalla linea della chiusura a riccio,
dell'arroccamento esorcizzatore dettato dall'orgoglio ferito, anche se non
manca qualche esempio di quell'altro indirizzo, quello «chirurgico», impietoso
ma certamente
non disamorato (u mericu piatusu fa 'a chiaia vilinusa), che oppone alla vacuità
dell'orgoglio la forza, la dignità, la rispettabilità dell'umiltà (e cioè,
recitano i dizionari: «coscienza della propria debolezza, insufficienza e
simili, che inducono l'uomo a farsi piccolo volontariamente, reprimendo nel
suo intimo ogni molo di alterigia»), che richiede si coraggio, ma che è
l'unico sentiero praticabile per risalire la china.
Parlando di mafia, di
corruzione, di rapporti mafia-politica e lordure simili, possiamo anche
sbagliare, noi comuni mortali, diagnosi e terapia (guai ad avere in tasca,
bell'e pronte
spiegazioni e soluzioni uniche, irrevocabili!). Un fatto però è certo: bisogna
parlarne, bisogna guardarsi attorno, scavare nel marciume, bisogna interrogare
sé stessi, esser chiari e onesti; non ci si può trincerare, di volta
in volta secondo i casi, facendo il gioco delle «forze del male», dietro la
pervicace ridicola negazione della realtà, o dietro il vittimismo, o dietro la
cortina fumogena della retorica, o dietro il silenzio, le ritorsioni o le
diversioni (“la mafia
è dappertutto”),
o dietro l'attesa formale, senza fine, dell'accertamento, delle
«prove», di verità che dentro di
noi ben conosciamo o comunque percepiamo e fiutiamo.
Non si può recriminare e
invocare provvedimenti e interventi per arrestare il dilagare della disonestà
e del malcostume («quali mafia, ppi carita!»)
e, contemporaneamente, disquisire distinguere sottilizzare minimizzare
ironizzare e liquidare, con sufficienza e saccenza, come artificioso polverone
e fumus protagonistico, ad esempio, qualsiasi azione della magistratura che
vada in senso contrario al coprire e proteggere, prima rimproverati allo Stato;
o, per contro, osannare a chi. capziosamente, pretenda di mettere il bavaglio
alla stampa che osi uscire dalla comoda gesuitica gattopardesca
rituale genericità del moralismo di facciata.
Bisogna porsi ogni possibile interrogativo, compreso soprattutto quello
riguardante il ruolo
e le responsabilità della collettività (la
Sicilia «ufficiale») e dei singoli siciliani (si può essere «conniventi», oltre
che per calcolo e per cointeressenza, per rassegnazione, per acquiescenza, per
abulia, per egoismo, per quieto vivere), e indagare, analizzare, ragionare
prima di emettere verdetti, assolutori o di condanna, prefabbricati.
Abbiamo il diritto di pretendere che la
stampa, le forze di opinione, i movimenti politici non «inquinati», le persone
«per bene», senza abbandonarsi a piagnistei o levare alti lai, pongano a sé
stessi le domande e. soprattutto, non eludano le risposte, per spiacevoli che possano essere.
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